Digitando le parole “riccio di mare” nella stringa di ricerca delle immagini di Google, appariranno molti di questi animali caratterizzati da teche e spine di diversi colori, con una preponderanza del viola, con le sue sfumature, e del verde (Fig.1). Questo ci suggerisce che l’animale, per suo specifico interesse e funzionalità, ha investito delle energie affinchè il suo metabolismo producesse una specifica classe di composti colorati, ovvero dei pigmenti. Si tratta dei cosiddetti “poliidrossinaftochinoni” e la complessità del nome rende conto anche della complessità delle loro funzioni: la colorazione è forse la caratteristica più tangibile di queste molecole, ma le proprietà più significative sono legate alla loro spiccatissima attività antiossidante (prevenendo così l’invecchiamento cellulare) e alle comprovate azioni farmacologiche, antimicrobiche e antinfiammatorie. Si pensi che una piccola molecola come l’Echinocromo A, appartenente a questa classe di composti ed estratta dalla specie Paracentrotus lividus, il riccio di mare che abita il nostro Mar Mediterraneo, è attualmente commercializzata in alcuni Paesi, tra cui la Russia, per il trattamento di malattie oculari e per prevenire l’infarto del miocardio.
Figura 1. Le diverse colorazioni dei ricci di mare
Ma quanti pigmenti di questo tipo sono contenuti nelle teche del riccio? Pochi, molto pochi, considerando che non superano lo 0,1% del peso dell’animale. Questo però non deve allarmare, poichè l’azione farmacologica, se spiccata, agisce anche in concentrazioni molto basse.
A partire da queste considerazioni, il gruppo dei chimici del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano sta lavorando sull’estrazione di questi composti colorati e antiossidanti dagli scarti del riccio di mare.
Per questo scopo è di fondamentale importanza disgregare la matrice di carbonato di cui sono costituite le teche e nella quale sono intrappolati i pigmenti, attraverso il trattamento degli scarti con una soluzione acquosa acida, che genera CO2 liberando i pigmenti nel liquido (Fig. 2). Per separare poi quello che ci interessa dal resto, utilizziamo un solvente immiscibile con l’acqua, per il quale però i pigmenti hanno molta affinità. Questi si trasferiranno solubilizzandosi in esso, abbandonando la fase acquosa. Il risultato è una separazione di due fasi liquide, tra le quali quella sovrastante contiene esclusivamente i poliidrossinaftochinoni (Fig.2).
La finalità dell’estrazione è duplice proprio poichè segue la duplice finalità dei progetti CIRCULAr e BRITEs: dal punto di vista analitico, l’identikit dei pigmenti (inteso come “quali e quanti”) contenuti nelle teche dei ricci è fondamentale per delineare il profilo nutrizionale e il contenuto antiossidante dei mangimi a base di farina di scarti di riccio nelle diete delle galline ovaiole; non meno importante è l’ottenimento di un estratto arricchito di questi composti che andrà ad essere uno dei principi attivi, assieme al collagene, dei dispositivi biomedici per la rigenerazione tissutale a seguito di lacerazioni o altri tipi di lesioni cutanee.
Referenze bibliografiche:
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– Shikov A. N., Pozharitskaya O. N., Krishtopina A. S. and Makarov V. G. (2018). Naphthoquinone pigments from sea urchins: chemistry and pharmacology. Phytochem. Rev. 17: 509–534.
Si ringrazia Stefania Marzorati per la realizzazione dell’articolo e le immagini, Marcello Turconi per la revisione e l’organizzazione editoriale.